Conversazioni – Fondazione Giovanni Paolo II https://fondazionegiovannipaolo.org – Per il dialogo, la cooperazione e lo sviluppo- Wed, 27 Mar 2024 13:02:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.4 https://fondazionegiovannipaolo.org/wp-content/uploads/2022/11/cropped-favicon-32x32.jpg Conversazioni – Fondazione Giovanni Paolo II https://fondazionegiovannipaolo.org 32 32 Le catene che imprigionano la nostra dignità e diventano un ostacolo per la democrazia https://fondazionegiovannipaolo.org/catene-democrazia-ermini/ Wed, 06 Mar 2024 14:41:31 +0000 https://fondazionegiovannipaolo.org/?p=21548 Catene ai polsi, catene ai piedi, la catena come guinzaglio. Le catene da sempre rappresentano la negazione della libertà a cui tutti teniamo. Nelson Mandela scriveva: “le catene imposte ad uno di noi pesano sulle spalle di tutti”.

Così in questi giorni abbiamo sentito come comunità, guardando le immagini di Ilaria Salis condotta e tenuta in catene alla prima udienza del processo nel quale è imputata a Budapest, il peso di quelle catene, come un’ingiustizia, non perché lei sia innocente dei reati che gli vengono contestati, ma perché non è umano umiliare e trattare in quel modo una persona.

A noi italiani quelle catene pesano ancor di più perché il nostro sentire sulla dignità umana è forse diverso, oggi, da quello del popolo ungherese, per la nostra concezione dello stato di diritto, per la nostra storia, per le conquiste che abbiamo fatto, per una Costituzione che si fonda sul riconoscimento e la difesa dei diritti fondamentali. Non illudiamoci, ci sono stati e ci sono ancora tanti e troppi episodi che anche da noi trasformano un detenuto in una non- persona, privata dei propri diritti e della propria dignità.

Basta pensare ai suicidi che avvengono nelle nostre carceri, al sovraffollamento nelle celle ormai consuetudine in tutti gli istituti di pena, ai tanti e inutili carcerati rinchiusi da tempo in attesa di giudizio o per reati minori, che potrebbero essere gestiti attraverso le tante e diverse modalità previste dalla legge.

Anche da noi chi è povero resta in carcere solo che il non vedere ci rassicura e comunque in un’udienza di un processo non capita mai di vedere una persona condotta in aula come un animale pericoloso. Per questo quando lo vediamo nascono domande, iniziano le perplessità, ci interroghiamo su come quelle catene pesano sul nostro senso di giustizia e di dignità.

Viene il desiderio di iniziare ad approfondire e scopriamo che per i reati contestati a Ilaria Salis in Ungheria si rischiano fino a 24 anni di carcere e in Italia invece molto meno.

Poi si scopre che secondo Amnesty International “esiste la decisione quadro del 2009 del Consiglio europeo sul reciproco riconoscimento delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare’, che in questi casi prevede per il detenuto una serie di misure alternative, come i domiciliari. Essa potrebbe non necessariamente essere applicabile solo a condanna definitiva, ma anche prima”.

Con la possibilità di poter scontare la pena anche nel proprio paese e ci chiediamo quale è il senso della punizione che uno stato deve infliggere a chi ha commesso dei reati e dunque anche della possibilità di riabilitazione di una persona.

Ci chiediamo come mai due paesi che si riconoscono sui diritti inviolabili dell’uomo e stanno nella stessa comunità europea, possono avere così forti disparità su un tema come la giustizia,  caposaldo della vita di uno stato democratico.

Quelle catene che impediscono a una persona di muoversi danno concretezza al diverso modo di intendere la giustizia, la democrazia, la libertà, la dignità. Sono catene pesanti politicamente anche per chi ha pensato e narrato che, nella strana forma di democrazia ungherese, il sistema proposto da Orbàn, possa essere un possibile modello da seguire. Tanto più quando quelle catene appaiono ai nostri occhi, proprio alla vigilia di una campagna elettorale per un voto europeo ritenuto da tanti analisti molto importante e che potrebbe segnare una svolta politica nel nostro continente.

Sono catene che destano allarme, alle quali occorre rimediare, perché sono pericolose molto di più di tante parole.

Gli uomini che aspirano ad essere liberi difficilmente possono pensare di rendere schiavi gli altri. Se cercano di farlo, non fanno che rendere più strette anche le proprie catene di schiavitù” scriveva Mahatma Gandhi.

La perdita di diritti civili e di dignità anche se colpisce altri da noi, si ripercuote sulla libertà di tutti.

Questo è il messaggio che arriva al nostro cuore e alla nostra mente da quelle catene di Ilaria Salis, perché se ci immedesimiamo in lei, non vorremmo essere costretti a subire quell’umiliazione, anche se fossimo colpevoli.

E quando ci immedesimiamo nelle storie degli altri cambia il nostro modo di vedere le cose. Uno stato è forte non quando usa la forza, ma quando non fa perdere a nessuno i propri diritti, a partire da quello di vedere rispettata la propria dignità. È ciò che ci insegna la nostra Costituzione, è ciò che sta alla base di ogni costruzione politica democratica, anche quella della Comunità Europea. Per questi motivi quelle catene hanno imprigionato anche tutti noi.


Pierluigi Ermini, è un comunicatore pubblico, amante della scrittura, creatore del blog “i cammini di Pierluigi” e referente del Valdarno per l’Associazione Libera.

“Conversazioni” è la rubrica del magazine della Fondazione Giovanni Paolo II che raccoglie punti di vista su temi di attualità, società, economia e cultura. L’obiettivo è offrire uno spazio di dialogo aperto a tutti dove ognuno è libero di esprimere le proprie idee. Se vuoi contribuire al dibattito inviaci il tuo articolo alla mail comunicazione@fondazionegiovannipaolo.org

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Palestina e Israele, resta ancora tanto da dire https://fondazionegiovannipaolo.org/israele-palestina-ermini/ Thu, 26 Oct 2023 08:50:31 +0000 https://fondazionegiovannipaolo.org/?p=20418 I momenti difficili e complicati che stiamo vivendo in queste settimane dopo il disumano attacco portato da Hamas verso i civili israeliani e la risposta spropositata e non giustificabile dell’esercito israeliano verso la popolazione di Gaza, non si risolveranno certamente schierandosi per il popolo israeliano o per il popolo palestinese.

Eppure tutti coloro che hanno a cuore il futuro e la convivenza tra i popoli sono consapevoli che senza aprire la strada verso la costruzione di due Stati, quel piccolo territorio del nostro mondo diventerà il luogo di maggiore destabilizzazione e una polveriera umana in grado di rompere il già instabile equilibrio in Medio Oriente, anticamera di una guerra dalle proporzioni e conseguenze incalcolabili per tutto il pianeta.

La storia che in questi ultimi 70 anni ha attraversato una terra così cara e amata da cristiani, ebrei e musulmani, è, in ogni suo evento e fatto accaduto, la vera testimone dell’incapacità finora dimostrata da tutte le istituzioni nazionali ed internazionali nell’affrontare la questione israelo-palestinese.

In fondo Hamas deve la sua nascita, il suo sviluppo e la sua acquisizione di potere all’interno di Gaza, e in qualche modo la sua capacità di controllo sulle centinaia di migliaia di palestinesi che vivono lungo la striscia, principalmente a tre fatti politici di grande rilievo: una politica di espansionismo incontrollato da parte di Israele con i suoi continui insediamenti che espropriano illegalmente territori assegnati ai palestinesi; l’attuale inconsistenza politica dell’Olp e dell’Autorità Nazionale Palestinese con una classe dirigente incapace e corrotta; il fallimento della diplomazia internazionale, da decenni assente sul fronte della questione tra Israele e Palestina.

Chi ha avuto occasione, in questi anni, di andare in Terra Santa, non solo per visitare i luoghi sacri delle tre religioni monoteiste, e ha avuto contatti anche con il popolo palestinese e il popolo israeliano (nelle sue componenti ebraiche e arabo-israeliane), si è reso conto della complessità che ogni giorno si vive in quella terra.

Dalla mancanza di speranza nel futuro dei palestinesi che ogni giorno si vedono togliere parte della loro terra per dare spazio agli insediamenti israeliani, alla necessità per gli israeliani di una vita basata su una sicurezza esasperante, che toglie loro il respiro (e in parte anche la libertà), alla costrizione ad abitare in piccole città a cui sono spesso sottoposte le persone della componente araba-israeliana (abituate a vivere in precedenza nelle tribù e in forma nomade ), soprattutto per attuare su di loro un’azione di controllo, da parte dello stato centrale.

Per fare questo passaggio occorrono persone in grado di vedere i diversi punti di vista, le  ragioni dell’uno e dell’altro, e poi cercare una strada che possa aprire al dialogo, nella consapevolezza che ciascuno deve fare un passo indietro per farne uno avanti insieme, uscendo finalmente dalla propria prospettiva.

È quanto con parole e immagini diverse ci indicano due grandi scrittori israeliani nostri contemporanei, da poco scomparsi, che hanno vissuto gli oltre 70 passa anni dello Stato d’Israele: Amos Oz e Abraham B. Yehoshua.

Resta ancora tanto da dire” è il titolo dell’ultima lezione che Oz ci ha lasciato. Una lezione dove il grande scrittore ci parla di una malattia che affligge Israele, quella del “ritornismo”, ovvero quella di “cercare nello spazio, qualcosa che s’è perduto nel tempo”.

Lo fa prendendo come esempio il desiderio di invadere ogni angolo dei territori occupati, che sta diventando il tema dominante di Israele. Se anche si arrivasse alla riconquista di tutta la terra, ciò non porterebbe alla ricostruzione di “quel paesaggio biblico di cui si ha tanta nostalgia”.

Ma ciò non vuol dire che il popolo di Israele non si debba vivere la nostalgia che sente, solo non può viverla se non interiormente aprendosi al futuro che la storia presenta oggi; e il futuro non può essere che la costruzione di due Stati.

Ci lascia Amos Oz con una speranza nel futuro: “l‘uomo ha un finale aperto… Da qualche parte fosse c’è già fra di noi l’uomo e la donna che dirà agli israeliani: cari ragazzi questa operazione va fatta, lo sapete anche voi. Allora facciamola. Perché nel profondo dell’animo la maggior parte di noi, compresa una fetta di elettori di destra, lo sa già.”

Così con parole e storie diverse anche Abraham B Yehoshua, nel suo ultimo libro, prima di morire, “Il terzo tempio”, ci lascia la sua speranza. Il terzo tempio per la tradizione ebraica ortodossa deve nascere in corrispondenza di quello precedente distrutto dai Romani nel 70 d.C., ovvero sull’attuale spianata delle moschee. Ciò provocherebbe, come ci dice anche Amos Oz, una guerra aperta contro tutto l’Islam, di fatto la terza guerra mondiale.

Ecco che nel romanzo di Yeoshua appare una donna straniera Ester, convertita, che propone la costruzione del tempio “fuori dalle mura della città vecchia, un tempio modesto, umile, tra la tomba di Assalonne e la valle della Geenna”. Un tempio che non interferisce con le altre religioni, ma che sarebbe il segno di una pace vera, quella pace che lo stesso Yehoshua e Amos Oz, hanno inseguito fino alla loro morte.

Può sembrare letteratura, poesia, invece è la speranza che non ci deve abbandonare neanche oggi, perchè si basa sulla realtà storica e sulla concretezza che altro futuro su quella Terra benedetta da Dio non può esserci se non con la costruzione di due Stati.

Ed è lo stesso Amos Oz nel suo libro a ricordarci che “una ferita non si cura con il bastone” e anche per Israele c’è una sola speranza da inseguire: “se non ci saranno qui e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. Sarebbe prima o poi uno Stato arabo dal Mediterraneo al Giordano, dove gli ebrei sarebbero una minoranza”.

Ecco perchè Israele, i palestinesi, tutta la comunità internazionale devono trarre spunto e forza dalla tragedia avvenuta il 7 ottobre in terra israeliana e che continua ancora oggi nella striscia di Gaza, per iniziare davvero il lungo cammino che deve portare alla costruzione dei due stati.

Pierluigi Ermini, è un comunicatore pubblico, amante della scrittura, creatore del blog “i cammini di Pierluigi” e referente del Valdarno per l’Associazione Libera. 

“Conversazioni” è la rubrica del magazine della Fondazione Giovanni Paolo II che raccoglie punti di vista su temi di attualità, società, economia e cultura. L’obiettivo è offrire uno spazio di dialogo aperto a tutti dove ognuno è libero di esprimere le proprie idee. Se vuoi contribuire al dibattito inviaci il tuo articolo alla mail comunicazione@fondazionegiovannipaolo.org

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Il punto di vista di una ragazza palestinese https://fondazionegiovannipaolo.org/ragazza-palestinese/ Tue, 24 Oct 2023 13:43:11 +0000 https://fondazionegiovannipaolo.org/?p=20407 Mi chiamo Christine, sono palestinese, nata e cresciuta a Betlemme. Qualche anno fa sono arrivata in Italia per continuare gli studi e partecipare a un progetto legato alla gestione del conflitto e la costruzione della pace. Ho partecipato a questo progetto perché credevo e credo ancora che si possa costruire la pace in Palestina, ma per fare la pace prima deve essere fatta giustizia.

Ho vissuto guerre da quando ero bambina, ho visto la sofferenza, la tristezza, la rabbia, la resistenza e la forza del mio popolo. Ricordo vivamente la seconda intifada e l’inizio della costruzione del muro di apartheid. Ho vissuto l’occupazione israeliana e l’assenza di libertà che questa ha causato. In Palestina dire che non c’è libertà non è retorica, è realtà. Non possiamo muoverci in autonomia da una città all’altra senza il permesso di Israele. Non possiamo percorrere tutte le strade perché alcune sono riservate agli israeliani e se, anche per sbaglio, un palestinese percorre una strada israeliana o si avvicina ad una colonia rischia serie conseguenze.

Sia a Gaza che in Cisgiordania il controllo dell’acqua e dell’elettricità è del governo israeliano e anche prima dell’attuale guerra poteva capitare che le forniture venissero interrotte. Chi è stato in Palestina avrà notato tante cisterne sui tetti delle case: ecco, servono proprio per quando Israele ci toglie l’acqua. Per andare a Gerusalemme noi palestinesi dobbiamo avere un permesso da Israele. Per prendere un aereo dobbiamo andare in Giordania affrontando un viaggio che può durare anche un giorno, perché non abbiamo più il nostro aeroporto che era a Gaza.

Israele da decenni sta portando avanti la colonizzazione che non è altro che la polverizzazione dei territori palestinesi mediante l’occupazione con nuovi insediamenti che sono considerati illegittimi anche dalla comunità internazionale. Muoversi anche per pochi chilometri può essere davvero complicato. A Gaza la situazione umanitaria e la limitazione delle libertà personali è ancora molto più grave, visto che è sotto assedio da più di 15 anni. Per chi non è stato in Palestina è difficile capire.

Ed eccoci di fronte a un’altra guerra, con una violenza che non si vedeva da secoli. Questa volta non sono dentro la mia città che è circondata dal muro. Non mi sento in pericolo fisicamente ma sono devastata dalle notizie che arrivano. Sono preoccupata anche per la mia famiglia.

Le immagini e i video che vediamo sono crudeli. Tanti riguardano bambini. Sapete cosa vuol dire bombardare scuole, moschee, chiese, ospedali? Vuol dire non considerare minimamente i diritti umani e il diritto internazionale. La violenza va sempre condannata. Quello che sta succedendo non è giusto né umano, ci sono tantissime vittime. Non bisogna pensare però che le persone siano disposte a una sopportazione illimitata. Da più di 75 anni i palestinesi stanno soffrendo senza che nessuno abbia fatto qualcosa di concreto per far sì che Israele rispetasse le risoluzioni della comunità internazionale. Questo ha generato negli israeliani un senso di impunità che non li ha mai fatti arretrare. Ora tutti condannano Hamas per l’attacco ad Israele senza però considerare tutto quello che il popolo palestinese ha subito e che sta subendo. Ritengo doveroso precisare che essere palestinese non vuol dire essere con Hamas. Essere palestinese non vuol dire essere antisemita, significa essere contro lo stato sionista e l’occupazione. Essere palestinese vuol dire lottare per la libertà.

Vivendo in Italia vedo le notizie che sono diffuse in Occidente e vedere come la narrazione della vicenda sia palesemente in favore di Israele mi riempie il cuore di rabbia. Rabbia perché gran parte del giornalismo è asservito alla politica che se ne serve per condizionare l’opinione pubblica. Purtroppo tante persone si fermano a quello che i media tradizionali raccontano; invito tutti a verificare le notizie che circolano anche se non sarebbe il compito di noi cittadini. Sta avvenendo il fenomeno dello shadowban, che consiste nell’oscurare profili, post e storie che raccontano quello che sta accadendo in Palestina, in particolare a Gaza. In Cisgiordania vengono arrestate persone perché pubblicano contenuti nei propri social che fanno vedere la realtà di questi giorni in Palestina. C’è la chiara volontà di nascondere i fatti.

Dopo ben due settimane dall’inizio dei bombardamenti su Gaza, Israele ha consentito l’ingresso di venti camion di aiuti umanitari. Purtroppo tali aiuti non bastano a coprire il fabbisogno neanche di una minima parte della popolazione. In gran parte si trattava di cibo, medicine e teli bianchi per i cadaveri.

Con piacere vedo che ci sono manifestazioni in tutto il mondo per chiedere giustizia e la liberazione della Palestina, anche da parte di ebrei e israeliani che non condividono le azioni del governo israeliano. La voce del popolo palestinese è forte ed è arrivata oltre il muro ma da sola non basta. Voglio credere che prima o poi ci sarà la pace in Palestina ma non accetto che questa avvenga attraverso l’eliminazione sistematica e graduale del mio popolo dalla faccia della Terra.

Spero che le violenze finiscano presto e che non succeda niente di male alla mia famiglia. Già so che ci vorrà molto tempo per riprendersi perché la situazione di tante famiglie, sia sotto il profilo sanitario sia economico, si aggrava di giorno in giorno. Spero che almeno tutto questo porti alla conquista dei diritti fondamentali per i palestinesi. Non nascondo che nello scrivere queste righe temo anche per eventuali ripercussioni da parte di Israele quando tornerò in Palestina ma credo che sia mio dovere, per quanto possibile, dare il mio punto di vista. Con queste parole non voglio suscitare compassione ma stimolare ad approfondire questi temi.

Non ci sarà pace senza la liberazione del popolo palestinese.

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Gerusalemme dove volano i Poeti https://fondazionegiovannipaolo.org/gerusalemme-poeti-arnone/ Mon, 23 Oct 2023 14:22:18 +0000 https://fondazionegiovannipaolo.org/?p=20388          Non parrà strano un titolo simile nei confronti della città santa, dove volano … profeti, patriarchi, il Messia, La Vergine Maria, gli Apostoli e mille altre figure sacre del primo cristianesimo. Volano nel cielo immenso, a volte terso e limpido, altre volte nebuloso, tragico e triste. Questo sta a significare l’importanza unica della città di Gerusalemme attorno a cui è nata la Storia e anche la leggenda che avvalora ancora di più la storia.  «Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra l’iride, Gerusalemme la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». È un aforisma di tradizione giudaica che sta a significare la centralità di Gerusalemme.

          Sul suo cielo è volata una grande letteratura le cui origini vanno indietro nelle pagine dell’Antico Testamento, e poi proseguono fino ai nostri giorni.  Impossibile fare una sintesi.

Prendo spunto- brevemente- dal mio volume Gerusalemme dove volano i poeti (Pazzini editore, 2013) soffermandomi su nomi di scrittori contemporanei che hanno vissuto il dramma di Israele del secondo dopoguerra: Abraham B. Yehoshua, David Grossman, Amos Oz. Il trio letterario più importante e determinante della letteratura israeliana che in modo o in un altro entra nel cuore della città di Gerusalemme: la città della Grazia e del peccato, della Parola e delle parole, della Pace e della violenza.  Così la descrivono i tre scrittori.

Yehoshua in romanzi come Il signor Mani, il responsabile delle risorse umane, Il diario di una pace fredda.  Romanzi duri, a volte violenti, forti, in cui l’umanità è messa alla prova da eventi tragici; è un viaggio nei sottofondi della città dove l’oscurità è anche morale.

Grossman nelle pagine di Qualcuno con cui correre, Il sorriso dell’agnello, L’uomo che corre si sofferma nella rete di una serie di avventure: il disordine di una   città che prima aveva solo immaginato e che poi man mano tocca con mano.

Mentre per un personaggio di Amos Oz , Hannah, questa  «(Gerusalemme) non è una città, ma una illusione…a volte si ha l’impressione che la città non esista.  Gerusalemme è una città misteriosa, anche se ci sei nato e ci vivi da sempre». È la tematica che lo scrittore israeliano sviluppa in Lo stesso mare, Una storia di amore e di tenebra, La vita fa rima con la morte.

La complessità della città di Gerusalemme è molto più evidente  nella realtà e nella fantasia di scrittori come i tre citati e anche altri.

Vincenzo Arnone: è prete della diocesi di Firenze. Laureato in lettere moderne presso L’università La Sapienza di Roma, si occupa di tematiche letterarie e religiose, nella saggistica e nella narrativa. Nell’ambito del Sinodo diocesano di Firenze del 1989-92, ha curato il Gruppo sinodale degli scrittori fiorentini.

 

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Il cardinale Matteo Zuppi parla della ricerca della pace https://fondazionegiovannipaolo.org/pace-zecchi/ Mon, 23 Oct 2023 14:21:21 +0000 https://fondazionegiovannipaolo.org/?p=20384 Stefano Zecchi: Fiorentino, politico, scrittore e giornalista ha vissuto sempre a Firenze. Il suo impegno, negli ultimi anni è rivolto a far conoscere scrittori e libri, attraverso presentazioni mai banali e sempre molto partecipate e a interviste, qui pubblichiamo un suo colloquio con il cardinale Matteo Zuppi, che stanno svolgendo incarichi di primo piano nel panorama politico, culturale, ecclesiale in Italia.

Il cardinale Matteo Zuppi parla di della ricerca della pace

«Cerchiamo quello che unisce per risolvere quello che divide. Preparare il dialogo è quasi più importante del dialogo stesso, un po’ come creare il sistema che poi può permettere di trovare la soluzione». Nella sua Bologna abbiamo incontrato il cardinale Matteo Zuppi, Presidente della Cei, che nonostante i suoi innumerevoli impegni ci ha accolto con il suo stile fraterno, disponibile, uno stile che ci trasmette credibilità e speranza. Con lui abbiamo affrontato alcuni temi di stretta attualità.

Vescovo Matteo, quest’anno è stato un anno impegnativo per lei. Sono passati quasi due anni dall’invasione della Russia dell’Ucraina. Su mandato di papa Francesco lei ha parlato con i grandi della terra, è stato  negli Stati Uniti, a Kiev, a Mosca, a Pechino. Che spiragli ci sono per il cessate il fuoco? Per una pace giusta?

«La speranza ci spinge a cercare le chiavi della pace dove sono finte, spesso proprio dove non c’è la luce o dove non è facile, al buio, in una condizione difficile, affrontando le “ragioni” che hanno generato la guerra. La pace però bisogna cercala sempre. Non viene se non la si crede possibile e se non si cercano i frammenti nascosti in ognuno che dobbiamo ricomporre assieme. Cerchiamo quello che unisce per risolvere quello che divide. Preparare il dialogo è quasi più importante del dialogo stesso, un po’ come creare il sistema che poi può permettere di trovare la soluzione (…)»

Ci stiamo abituando alla guerra, come ci stiamo abituando, purtroppo, ai morti giornalieri nel Mediterraneo, cimitero di morte, come ci dice papa Francesco. Come possiamo non assuefarci? È imminente una terza guerra mondiale con questa inarrestabile questa corsa agli armamenti?

«Il rischio di assuefarci è altissimo. Mi viene da pensare che sia come un meccanismo difensivo dell’organismo umano e collettivo, che non può sopportare un peso prolungato di tale paura e sofferenza. Purtroppo, però, l’indifferenza non fa soffrire e ci sono tanti prodotti di benessere a poco prezzo, per non pensare (…)»

L’intervista per esteso di Stefano Zecchi al cardinale Matteo Zuppi, può essere letta su Rocca n. 19 del 1° ottobre 2023

 

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Hamas fa la guerra dell’Iran https://fondazionegiovannipaolo.org/hamas-iran-scaglione/ Thu, 19 Oct 2023 06:43:54 +0000 https://fondazionegiovannipaolo.org/?p=20379 Man mano che il catastrofico bilancio di vittime e distruzioni provocate dall’attacco di Hamas si aggrava, si capisce quanta ragione abbiano avuto le autorità di Israele nel parlare subito di «guerra». Ci sarà modo di capire come i preparativi di questa guerra siano potuti sfuggire alle spie e all’intelligence dello Stato ebraico e dell’Egitto, oltre che ai satelliti Usa. Conoscendo gli israeliani, le inchieste arriveranno e non guarderanno in faccia a nessuno. Forse nemmeno in quella di Itamar Ben Gvir, l’ultra nazionalista (eufemismo) ministro della Sicurezza nazionale, ossessionato dall’idea di proteggere gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, sua base elettorale, forse fino al punto da sguarnire il confine con Gaza.

Ma ciò che per noi conta, ora, è capire chi l’ha dichiarata e perché. Hamas, certo. Ma Mohammed Deif, il capo militare di Hamas, non è un novello Von Clausewitz. Il regista che ha fornito i mezzi, suggerito le tattiche, ispirato le strategie e, soprattutto, scelto il momento non è a Gaza. Anzi: si serve di Gaza per questa che è una guerra per procura.

Il primo indiziato è lIran. Sembrava ormai vicino un accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, che avrebbe completato la mappa degli Accordi di Abramo a suo tempo escogitati dall’amministrazione Trump. Per arrivare alla firma, il mediatore Joe Biden preparava ampie concessioni al regno saudita: un impegno a difenderlo in caso di aggressione e collaborazione nel settore nucleare. Cosa questa che anche negli Usa fa rabbrividire: l’atomica nelle mani di Mohammed bin Salman spaventa poco meno di una, ipotetica, nelle mani degli ayatollah. Se l’accordo fosse andato in porto, con l’Arabia Saudita protetta dall’ombrello militare Usa e dotata di accesso al nucleare, l’Iran avrebbe perso la golden share per la pacificazione della regione (anche in Yemen e Libano) e il disgelo diplomatico coi sauditi, a sua volta mediato dalla Cina di Xi Jinping, sarebbe diventato carta straccia.

Fulvio Scaglione: è un giornalista professionista dal 1983. Dal 2000 al 2016 ha ricoperto la carica di vice-direttore del settimanale “Famiglia Cristiana”, e nel 2010 ha lanciato l’edizione online del giornale. Ha svolto il ruolo di corrispondente da Mosca, seguendo da vicino la transizione della Russia e delle ex repubbliche sovietiche, oltre ad occuparsi degli avvenimenti in Afghanistan, Iraq e dei temi legati al Medio Oriente.

 

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La UE, l’Italia e i migranti https://fondazionegiovannipaolo.org/italia-migranti-padoin/ Tue, 03 Oct 2023 13:13:03 +0000 https://fondazionegiovannipaolo.org/?p=20330 L’opinione pubblica è rimasta sconcertata dai mutamenti rapidi della politica nazionale ed europea in tema di accoglienza ai migranti. Dagli arrivi sorvegliati in seguito agli accordi per l’operazione europea Sophia, al regime più rigido e razionale del governo Gentiloni, ispirato dal ministro dell’Interno Marco Minniti, alla chiusura quasi totale dei porti del governo gialloverde, per iniziative di Matteo Salvini, alla situazione attuale di arrivi incontrollati. Il guaio è che non esiste una legislazione europea omogenea che regoli il tema dell’immigrazione, anche se, negli ultimi due anni, sulla spinta dei Paesi mediterranei, l’Europa sta cercando faticosamente di creare un sistema d’accoglienza e integrazione che risponda ai principi della legislazione internazionale e a quelli dei Trattati. Ma, finora, con scarso successo, vista l’opposizione di molti Stati membri, in particolare della Germania e dei suoi satelliti e di alcuni Paesi dell’Est.

Il tema è adesso all’ordine del giorno per gli arrivi incessanti di migranti dalle coste africane in Sicilia, che sono triplicati rispetto agli anni scorsi, senza che l’Europa abbia fatto gran che per accoglierli e per le morti sempre più frequenti di disperati nelle traversate del Mediterraneo organizzate dai trafficanti di uomini. Gli unici atti recenti sono stati accordi conclusi prima con la Turchia e poi con la Tunisia. Soldi a quei governi per limitare le partenze, non certo un modello di solidarietà. Occorre perciò che i governanti europei rinuncino a difendere le posizioni egoistiche di ciascuno Stato e che le istituzioni europee prendano il comando delle operazioni, come hanno fatto per le emergenze pandemia e Ucraina. Solo così si riuscirà a risolvere questa drammatica situazione. Da un lato occorre favorire il progresso dei Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo e dall’altro di organizzare un’accoglienza e un’integrazione degna di questo nome e rispondente alle leggi internazionali e alle tradizioni della nostra civiltà. Onu e Ue, se ci siete, battete un colpo prima che sia troppo tardi.

Paolo Padoin, fiorentino, ha lavorato tutta la vita nella Pubblica Amministrazione ricoprendo anche il ruolo di Prefetto. Ha concluso la sua carriera come Prefetto di Firenze. Negli ultimi anni è stato eletto Presidente dell’Opera di San Lorenzo, essendo – come ripete spesso – l’unico fiorentino dopo i Medici ad aver vissuto nei due luoghi simbolo della famiglia fiorentina, il Palazzo Medici Riccardi e  la Basilica di San Lorenzo.

 

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