Blog

Fondazione Giovanni Paolo II / Magazine  / Palestina, tre indizi di tracollo sociale

Palestina, tre indizi di tracollo sociale

VAI ALL’INDCE

Sommario: L’ultima guerra tra Hamas e Israele ha messo in luce il dramma della società palestinese, ormai divisa in tre tronconi. I palestinesi di Israele, quelli della Cisgiordania e quelli di Gaza, un solo popolo ma tre destini diversi.

          Israele e Palestina hanno vissuto e stanno vivendo mesi durissimi. Da un lato la crisi istituzionale di Israele: nel giro di pochi giorni abbiamo visto la quarta elezione politica in meno di due anni, un’aspra consultazione parlamentare che ha portato alla nascita di un Governo non più diretto da Benjamin Netanyahu (più longevo al potere persino dei padri fondatori dello Stato ebraico, l’elezione alla presidenza della Repubblica di Isaac Herzog, un politico di stampo laburista che rappresenta l’aristocrazia del sionismo, essendo figlio di un altro Presidente (Chaim Herzog) e nipote del primo rabbino capo di Israele.

          Sono stati, però, anche i mesi dell’ennesimo scontro armato tra Israele e la Striscia di Gaza dominata da Hamas. Missili contro cacciabombardieri, per un bilancio di vittime altissimo: 232 morti sul lato di Gaza (dei quali almeno 66 minori) e 12 su quello di Israele. Per non parlare della Cisgiordania. Il frastuono della guerra ha fatto passare in secondo piano l’annullamento delle elezioni, che tra i palestinesi non si svolgono ormai dal 2006.

          Sono moltissime, ovviamente, le ragioni di preoccupazione e pessimismo. Noi vogliamo affrontarne qui una che riguarda i palestinesi, ovvero l’anello debole di questo dramma. Non si tratta solo di prendere atto di uno sprofondo economico e sociale che pare inarrestabile. Per fare un solo esempio: a fine 2020, la disoccupazione a Gaza sfiorava il 50% e in Cisgiordania il 16%. E stiamo parlando di economie abbondantemente sussidiate, dove i posti di lavoro sono in gran parte “statali”. Aggiungiamo il peso del Covid, le distruzioni della guerra, la fuga dei turisti che magari stavano pensando di tornare in Terrasanta, le aggravate difficoltà della tensione tra israeliani e palestinesi…

          Il vero problema, oggi, è l’ipotesi di disgregazione della società palestinese che sembra incancrenirsi ogni giorno di più. In Israele, la coalizione “tutti tranne Netanyahu” che ha portato Naftali Bennett al ruolo di primo ministro, è stata resa possibile dall’adesione del Partito arabo unito (di impostazione islamista) guidato da Mansour Abbas. Una scelta molto pragmatica, questa, che segnala però una realtà. I palestinesi che vivono in Israele non hanno gli stessi problemi di quelli della Cisgiordania o di Gaza. Per loro, che in Israele sono cittadini di serie B, la questione fondamentale è rimontare la china in termini di diritti e dignità, all’interno di una società moderna ed efficiente come quella israeliana.

          In Cisgiordania il tema è tutt’altro. Qui si tratta di resistere alla lenta ma inesorabile espansione di Israele, che di anno in anno erode le terre e le risorse dei palestinesi. I quali sono stretti tra la dipendenza e il controllo di Israele (che può decidere in ogni momento del livello di vita di ognuno di loro) e l’incapacità della propria classe politica, che non riesce a frenare gli israeliani, è atterrita dal fascino crescente di Hamas e non riesce a fare altro che affidarsi a una gerontocrazia ben rappresentata dal presidente Abu Mazen. Nella Striscia di Gaza una terza fenomenologia: due milioni di palestinesi, straordinariamente resistenti, sono confinati in una specie di carcere a cielo aperto dominato da Hamas, che non riesce a produrre nulla più di una di una politica della resistenza per la resistenza, chiedendo ai militanti e ai comuni cittadini sacrifici sempre più grandi in nome di una simbologia senza sbocchi se non quelli della guerra.

          Chi ha a cuore la sorte di tutti i popoli sofferenti deve cercare di frenare questa disgregazione palestinese, che può produrre solo danni, e non solo ai palestinesi. Occorre dare speranza per ridare fiato alle ipotesi di soluzione pacifica del conflitto. E per milioni di persone nel bisogno la speranza nel futuro si concretizza con il lavoro nel presente, con la possibilità di formare una famiglia e mantenerla, con la consapevolezza di avere qualcosa da proteggere oltre a un’identità da difendere. A questo, d’altra parte, serve la cooperazione allo sviluppo. Ovunque e comunque.

 Fulvio Scaglione

VAI ALL’INDICE

Iscriviti alla newsletter